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Metterci il cuore per raccontare la vita dei bambini. Intervista alla scrittrice Louise Mottier

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Qualche giorno fa mi è arrivata la mail dell’ufficio stampa di Gruppo Abele Edizioni riguardo questo libro, scritto da una scrittrice ed educatrice francese, sulla sua esperienza di educatrice in una comunità di minori non accompagnati a Genova. Lei si chiama Louise Mottier e l’illustratrice Michela Tirone.  Leggo il comunicato stampa e penso che a volte i libri, le canzoni arrivano nel momento giusto, quando magari quell’argomento è, per usare un termine fico su Twitter, trending topic, ossia l’argomento più acceso e seguito. Considerando la mia indole, la mia curiosità e la mia profonda empatia ho chiesto subito copia omaggio per poterlo leggere e magari “incontrare” Louise e parlarne un po’. 

Sono in malattia causa Covid e ne approfitto per leggerlo in una giornata. Le pagine scorrono veloci seppur abbia la necessità e il bisogno di fermarmi a volte per provare quantomeno lontanamente le emozioni della scrittrice, così come quelle dei bambini. Impossibile, ma avere la mente e il cuore aperto è sicuramente un ottimo modo per capire e comprendere. 

Apro google drive e mi metto a scrivere e a preparare l’intervista, penso che sia un ottimo modo per far scorrere le parole e i pensieri e mettere subito su “carta” le mie curiosità.

Gentile Louise, innanzitutto grazie mille per il tempo che mi sta dedicando. Domanda di rito: come stai?

Grazie già per questa bellissima intro! Sto molto bene, alla grande come si dice da voi. E’ un periodo molto bello per me, dopo l’uscita del libro francese ad ottobre 2021, arrivare alla fine del percorso di Come si dice dream mi da tanto soddisfazione, sono felice che quelle storie arrivano finalmente da dove sono nate, qui in Italia.

Facciamo un salto nel tempo e nello spazio. Ci troviamo a Parigi, nel 2018. Ad un certo punto incontri Ahnaf, un bambino di dodici anni che cambia fondamentalmente la tua vita. Ovviamente non vogliamo spoilerare il libro ma partiamo da quel giorno. Cosa è scattato dentro te per intraprendere poi quel viaggio. 

Se contestualizziamo un po’, nel 2018 in Francia è stata appena promulgata una legge riguardo all’asilo e alla migrazione, sempre più restrittiva, che guarantisce meno tempo alle persone per fare una richiesta di protezione, che da meno diritti, e che ha conseguenze terribili per le persone in esilio. La situazione è difficile, soprattutto nelle grandi città, non creano posti di accoglienza e una parte importante dei richiedenti asilo è senza dimora.

Quando mi arriva Ahnaf, non so bene come comportarmi, sento un mix di rabbia contro le nostre politiche migratorie, di dispiacere di sentirmi impotente, di oltraggio per la chiusura delle strade migratorie sicure, che ha come conseguenza che le persone, compresi i bambini, prendono sempre più rischi per fuggire.

Ahnaf è il punto di partenza si, ero alla fine del mio contratto, ero già insicura sul fatto di prolungare perché volevo cambiare aria, paese, andare a vedere come si faceva negli paesi vicini.

 

Per chi non lo sapesse, quando si dice “minore straniero non accompagnato” si intende “il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell’Unione Europea che si trova in quel determinato stato o giurisdizione senza la presenza di adulti o tutori…” .Da Parigi sei andata a Genova dove hai svolto il ruolo di educatrice per due comunità di minori. Come mai in Italia, e cosa c’era in Francia che non funzionava? 

Come ho detto prima, nel 2018 in Francia, e da un po’ di anni, la migrazione è un tema molto cruciale, fonte di grandi tensioni politiche. C’è la situazione al Nord a Calais, quella a Ventimiglia o nelle Alpi. Nella maggior parte delle grandi città, le persone migrante, e i minori, non sono accolti per mancanza di coraggio politico e di umanità.

Finito il mio contratto, mi sono messa a cercare progetti e lavori in un paese europeo al confine, in Spagna, Greccia o Italia. Il gioco delle opportunità ha fatto il resto, e sono stata presa a Genova per un progetto di un anno all’inizio, che poi sono diventati due.

 

Devo essere onesto, ho versato qualche lacrima leggendo il tuo libro. Leggevo quelle storie, storie che in qualche modo ti arrivano attraverso i media, quelli attenti però e che non fanno il gioco della politica, e pensavo ai miei figli, ai miei nipoti e ai bambini di cui conosco le famiglie. Penso a loro e mi preoccupo del loro stato emotivo, se sono felici o meno, della loro istruzione e mi fa strano perchè poi ti rendi conto che hanno tutto ma principalmente hanno qualcuno che li guidi, che si prende cura di loro, che si occupa del loro benessere. La domanda è questa. Considerando che nel libro hai detto più volte che spesso il confine tra educatore e chi tiene a cuore davvero questi ragazzi è molto sottile, Quanto è stato difficile per te fare da “mamma” a tutti questi ragazzi? 

La posizione dell’educatore è molto sottile, oscilla fra diversi cursori, mi spiego meglio in un’altra tua domanda, dopo. Ognuno ha la sua esperienza, i propri vissuti. Io sono una che si affezionata tanto e tanto veloce, e quando ho iniziato a fare questo lavoro, mi sembrava di essere una spugna, prendevo tutto per me, sentivo mille emozioni, mi sentivo vulcano alla fine di ogni giornata. Poi, col tempo, ho capito che non è cosi che li puoi aiutare al meglio, che bisogna trovare il puntatore giusto, addato ad ognuno. Ad oggi non è che mi affeziono meno, ma riesco meglio a gestire le emozioni e le energie che ci metto, a separare il mio lavoro e il resto della mia vita. Mi sembra fondamentale per continuare a farlo, bene e con senso.

 

Il tempo passa e questi ragazzi giunti minorenni, piccoli, con sogni, speranze, desideri, diventano poi maggiorenni e devono lasciare queste comunità e, se non trovano comunità per neo-maggiorenni, o lavori, possono ritrovarsi in strada, spesso perduti e spesso pedine della criminalità organizzata. In un passaggio del libro ti chiedi in che modo questo passaggio burocratico automatico da minorenne allo status di adulto possa in realtà renderli autonomi e responsabili. Il loro background, il loro vissuto, la loro esperienza in una comunità con altri ragazzi di altri paesi con altre storie e altri vissuti, quanto tutto questo può trasformarsi in qualcosa di bello e positivo e quanto portarli alla deriva? 

L’emancipazione alla quale sono forzati li fa saltare direttamente dallo status di bambino a quello di adulto. Anche se l’adolescenza rimane un concetto molto occidentale – l’età adulto non è lo stesso in tutti i paesi (19 anni in Algeria, 21 in Cameroun o in Gabon) – questi ragazzi sono cresciuti per forza durante il percorso, quindi hanno raggiunto un certo livello di autonomia e di indipendenza, che pero sembra più intraprendenza (non so se è giusto detto cosi?), e viene spesso utilizzato per giustificare la mancanza di mezzi: in Italia come in Francia, ad esempio le strutture che accolgono minori stranieri ricevono meno budget (a volte due o tre volte in meno) rispetto a quelle che ospitano ragazzi del paese. Il motivo nascosto di questa discriminazione, che non ha nessuna base legale, è questa autonomia immaginata, che pero non significa che abbiamo davanti a noi un adulto, anzi. Dentro a questo piccolo essere c’è un adolescente, che forse non sa gestire bene i suoi bisogni, lavarsi, farsi da mangiare, prendere cura di sé, divertirsi.

I ragazzi che ci arrivano da soli, pure se sono stati forzati a comportarsi come adulti per sopravvivere, richiedono di essere considerati come adolescenti: spesso il sistema istituzionale li considera più come stranieri che come minori, giovani che richiedono protezione e cura. Non è preso in considerazione l’interesso superiore del minore come scritto nella Convenzione ONU sui Diritti dell’infanzia. 

Tutto questo ci fa pensare a quanto è fondamentale dedicare mezzi veri e importanti al passaggio post comunità, a pensare l’uscita di convivenza come il proseguimento del percorso del ragazzo e non come la fine. Meglio un ragazzo sarà “blindato” e preparato alla vita di un adulto in Europa, più grandi sono le sue chance di integrarsi al meglio, di continuare a crescere senza lo stress della fine dell’accompagnamento. Se la pensiamo più concretamente, è anche tanto più logico per lo Stato proseguire l’accompagnamento: più i soldi e i mezzi spenti sono importanti prima, meno lo dovrà fare dopo.

 

Mi ha colpito molto quando uno dei ragazzi, Momo per l’esattezza, ha raccontato di come anche i cani hanno documenti,come libretto sanitario, passaporto addirittura. E poi a bambini come loro non vengono dati subito documenti con il rischio, cito, che se una macchina ti investe nessuno saprà chi sei, da dove vieni, chi erano i tuoi amici. Mi ha commosso molto ma al contempo mi ha fatto rabbia perchè siamo un paese talmente fissato con la burocrazia da dimenticarcene poi per delle situazioni così particolari. Da educatrice come gestisci emotivamente la questione? 

Ci sono momenti di sconforto, ad esempio quando i trasferimenti dei ragazzi all’improvviso. Cominci un vero lavoro, creando legame, mettendo il piccolo al suo agio, e da un giorno all’altro viene trasferito perché un’altra regione deve occuparsene. Sembrano sprechi di energia, di opportunità per loro, una mancanza di considerazione di quello che stavano vivendo.

Questo lavoro ti fa sentire sempre vicino alle persone, a volte fin troppo. C’è una distanza difficile da tenere ma necessaria, e l’ho trovata nella differenza fra la compassione, e l’empatia: mettersi negli pani dell’altro, ma senza provare le sue emozioni – è quello il fondamentale mi sa – per accompagnarlo al meglio. In realtà, non sarebbe proprio una distanza, ma piuttosto un cursore, un puntatore che si muove e evolve, a seconda della nostra disponibilità mentale, di chi abbiamo davanti. Questo ti lo dico con più sicurezza dopo quasi cinque anni di lavoro nel sociale, e lo sto ancora imparando!

 

Quando leggo i giornali oppure parlo con persone che purtroppo hanno una visione distorta della realtà, rifletto sui motivi che hanno spinto una persona a commettere un reato, un furto in un supemercato, in una farmacia, o qualcosa di più grave. Non li giustifico ma anche io, come te, cerco di capire i loro “tentativi” di fuga, i motivi. Nel libro ci racconti di diversi ragazzi che purtroppo sono finiti poi nel sistema giudiziario perchè arrestati. Ad oggi sei riuscita a trovare i loro tentativi di fuga? I loro motivi? 

E’ una domanda difficile… Come dici, spesso di questi ragazzi si parla solo in male, invece di riflettere sul perché sono finiti in quella strada, perché non hanno trovato pace in quello che gli era proposto. Non so se sono riuscita a trovare i loro motivi per quello, ma posso dire che ho capito che nel lavoro educativo, non dobbiamo mettersi nella posizione di ‘salvarli’ tutti, non è possibile, e a volte, alcuni andranno dove non li vogliamo vedere.

 

Il libro, oltre alle bellissime storie di questi ragazzi, contiene delle illustrazioni davvero ricche di poesia. Come è nata la collaborazione con Michela? 

Ho conosciuto Michela alla fine del 2019, in un workshop che faceva interagire la cultura, l’identità, la scrittura, il “chi sono?”. Lei faceva anche – e lo fa tutt’ora – parte dell’associazione Pas à Pas, che offre corsi di lingue gratuiti agli stranieri a Genova. Quando sono arrivata non sapevo la lingua, e ho iniziato anch’io lezioni con loro. Siamo poi rimaste in contatto. Da allora, quando ho iniziato a lavorare sul libro con Francesca Rascazzo, la mia editrice, e che è uscita l’idea di aggiungere illustrazioni al testo, ho subito insistito: volevo Michela! Per me era importantissimo creare quest’oggetto quasi intimo, con una persona che vede e conosce la città come me, che ci vive, che la sente proprio.

 

Non è una comunità. E’ una casa: un luogo di ospitalità e di riposo, un porto sicuro lontano dalle onde tempestose. E a casa la vita non si ferma, si celebra. Mi piace questo termine, esprime davvero bene il concetto di qualsiasi luogo dove ci si prende cura dell’altro.  Quali sono oggi le tue emozioni su ciò che hai vissuto in questi due anni? 

Come lo spiego nel libro, questi due anni mi hanno segnata, ho lasciato Genova con un sentimento enorme di riluttanza, ma anche molto determinata sul perché me ne stavo andando: avevo l’idea del libro ancorata dentro di me. Ad oggi Genova è sempre casa, ci torno molto spesso, e non è per caso che mi sono trasferita a Marsiglia, sono quattro ore di macchina… E presentemente so che questa esperienza mi ha fatto crescere tanto, al livello di maturità, di scelti di vita. Forse non sapendolo, i ragazzi mi hanno anche spinta a seguire il mio istinto, il mio cuore, i miei sogni.

 

Jallow, Dhimitris, Yobo, Momo, Bakaye, Alji, Doumbia, Joseph, Mamadou, Lassana, Yaya, Rey, Edi, Ghulio, Vlad, Adrian. Hanno vissuto il loro sogno? Come stanno?

Non voglio fare spoiler, ma ci sono qualche risposte nel libro… E per fortuna, sono ancora in contatto con alcuni eroi del libro – che ne aspettavano l’uscita da tanto ormai! – e che sono un po’ sparsi in Italia o altrove. Ci sono anche molti di cui non ho più notizie, a volte perché sono andati in altri paesi dell’UE, o tornati nel loro… Come lo era Yobo, spesso dico che questi ragazzi sono un po’ come della sabbia, o degli uccelli: non li puoi fermare, non si fissano da nessuna parte, un giorno li vedi e l’altro magari no perché sono partiti di nuovo, alla ricerca della loro pace.

 

“C’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che la luce riesce a passare” Leonard Cohen. Quanta luce hai trovato in queste storie, in questi ragazzi? 

Con loro ho trovato tante di quelle sfumature che ha messo Michela nel libro. Sono rimasta sconvolta, e lo sono ancora, dalla loro capacità a riprendersi, a risollevarsi, a relativizzare. Mi hanno insegnato tanto, c’erano più volte dove ho pensato che erano loro a darmi energia. L’obiettivo del libro era quello: far vedere al più persone possibile quanta luce hanno questi giovani coraggiosi, quanto sono ricchi di resilienza, di sole, di riflessione. Basta solo dedicargli tempo per “grattare” un po’ sulle loro carapace, e scoprire cosa c’è dentro.

 

Prima di concludere ti ringrazio nuovamente per il tuo tempo e ti faccio una domanda: qual è il tuo “dream”?

Ti devo confessare che ne ho un bel po’… Ma ora che questa cosa della scrittura si è concretizzata per davvero, in Francia come in Italia, mi sento più “legittima” a presentarmi come autrice/scrittrice – anche se faccio ancora fatica a introdurmi come tale! – e vorrei continuare a farlo. Ho altri libri in testa, mi piacerebbe proseguire in quella strada, e continuare a pensare ai libri quasi come degli monumenti eretti in onore delle persone che rappresentano.

Giacomo Ambrosino

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